Alla ricerca dell’arca perduta – terza ed ultima parte – Siamo così giunti alla tappa finale. Pensate che tutto ebbe fine con il disastro della “spedizione Smith”? neanche per idea, anzi la faccenda si venne ingarbugliando maggiormente. Già alla fine del 1949, mentre il missionario e i suoi compagni di merenda si perdevano sull’Ararat, il giornale France–Soir se ne uscì con il seguente annuncio: “Due giornalisti turchi hanno scoperto l’arca di Noè, ma non sul monte Ararat bensì sul Giudi, al confine con la Mesopotamia: si tratta di un vascello lungo mt. 150, largo mt. 25 e alto mt. 15; intorno vi sono ossa di fauna marina e, ad alcuni chilometri, il sepolcro di Noè”.
Chi come me ha letto l’intero articolo non ha potuto esimersi da sottolinearvi qualche insanabile contraddizione, delle quali una vale per tutte: come si concilia l’attestazione oculare dei due cronisti di aver esaminato il biblico relitto con il loro costante richiamarsi all’autorità di numerose fonti arcaiche, testimoni della suo periodico apparire nei secoli dalla tomba di ghiaccio? Bisogna concludere, ripetendo il precedente avvertimento del Biblical Archaeologist circa l’abilità auto-illusiva umana: i due presunti scopritori videro ciò che erano interessati a vedere e, in quell’anno, nulla più vi era da ritrovare.
La notizia è comunque importante perche’, a mio avviso, mette fine a tutti i tentativi: come è possibile che si vengano a contrapporre due siti assai distanti tra loro come esclusiva sede di un unico leggendario reperto? Forse Noè disponeva di una flotta di arche? Il caso è più frequente di quanto immaginiate.
Ancora oggi a Gerusalemme i cattolici e gli ortodossi fanno a gara nel mostrare ai pellegrini i luoghi ove sarebbe accaduto un certo evento della storia sacra: l’evento è sempre il medesimo ma, purtroppo, la sua allocazione è stabilita in posti tra loro del tutto inconciliabili.
E non è tutto. Correva il 1949 quando il francese J. de Riquer, consumato esploratore polare, si rimise in marcia con una folta schiera di collaboratori e con al seguito due cineasti: preceduta in Turchia da un locale abate, profondo conoscitore dei territori da attraversare, l’impresa registrò l’ennesima disfatta.
Mi sono divertito a leggere i commenti della stampa europea dell’epoca, specie quello del Relais che, il 27 giugno di quell’anno, accompagnava lo scritto con una foto del capo-spedizione che non somigliava affatto al de Riquer, quanto a uno dei protagonisti del film Navi senza ritorno del regista americano Sidney Salkow. E le ricerche non si sono interrotte, essendo sufficiente cliccare su Internet per aggiornarsi e imbattersi nel tentativo dell’ex cosmonauta J. Irwin nel 1980 (finito persino prigioniero dei guerriglieri curdi) o in quello dell’equipe turco-cinese, nel 2010 presa per il naso dai pastori armeni che tappezzarono di legno fossile le pareti di una grotta sulla sacra montagna.
Ben prima di ciò mi preme segnalarvi una notizia battuta dal Times il 16 giugno 1962 a proposito dello sconsolato rientro alla base di una spedizione anglo-americana, finanziata dalla congregazione delle Chiese Avventiste; e ancora, l’immusonito commento del Sunday Times nel 1966 di fronte alla sconfitta subita dallo statunitense J. Libi.
Come concludere, cari amici? Siamo tornati al punto di partenza e non ci resta che accettare il silenzio della Genesi e delle fonti cuneiformi, nella consapevolezza non solo che neppure minimamente sappiamo “dove” cercare ma, principalmente, “cosa” cercare.
Chi crede va oltre i reperti destinati all’oblio del tempo, a polverizzarsi dopo 50 secoli, seppure ben impregnati di bitume antidiluviano. Anche in assenza dell’arca, riecheggia il giuramento di Javhè: “Finche la terra durerà, semine e raccolti, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non avranno fine” (Genesi, 8, 22). Questo è il dono, la certezza che gli uomini nati dopo Noè hanno ardentemente cercato.
Preoccupiamoci allora di agire con sapienza e non turbare gli equilibri scritti nel seno della natura. Evitiamo di comportarci alla maniera degli dèi assiri i quali, dopo aver scatenato un inarrestabile cataclisma, cercarono riparo nelle profondità del cielo. Ci è stato permesso di scegliere se adeguarci ai ritmi naturali o improvvisarci apprendisti stregoni: è questo, a parer mio, l’insegnamento magistrale che proviene dall’introvabile arca.