L’uomo dietro l’artista, l’essere umano dietro il cantautore, raccontare la vita e la carriera di Umberto Canino non è affatto facile. Un continuo sali e scendi tra occasioni, successi, incontri, impedimenti e musica. Fasi luminose e lati oscuri di un artista eccentrico, eclettico, raffinato e mai banale. Dall’incontro con i big della musica italiana alla lunga convalescenza, dopo un brutto incidente, per tornare a vivere di musica. Dopo diversi progetti e La Ninnananna di Stefania un ritorno in grande stile per ricordare e ricordarci, che anche nei momenti più bui, si può trovare la forza per ripartire. Il racconto di una tragedia e della speranza che si porta dietro; un ago e un filo per ricucire il mondo e ripartire da zero. Un’esigenza per il cantautore per reagire a quello che sta accadendo intorno a noi.
La tua carriera è stata un continuo sali e scendi, una volta assaggiato il successo, ti sei trovato immischiato in un brutto incidente che ha fermato per un po’ di anni la tua carriera.
Non è stato semplice quel periodo per me. Anche perché, ero entrato nella grande discografia in tarda età e già quello era un problema. Inoltre, la mia musica non era facile da far digerire al grande pubblico, anche se all’epoca c’era più voglia di ascoltare e sperimentare, quello che forse manca oggi. Così, quando mi sono dovuto fermare dopo l’incidente, non è stato affatto facile tornare e ripartire.
Quindi oggi manca la curiosità verso la musica?
Oggi si cercano più i numeri e le interazioni sulle piattaforme, ma quello che manca è il cuore. Ovvero, quella voglia di sperimentare e di azzardare verso un genere o delle sonorità specifiche. Attualmente, c’è una sorta di standardizzazione nella musica, si usano gli stessi suoni, le stesse parole e anche gli stessi passi nelle coreografie. Forse sì, manca quella curiosità che ha fatto crescere la musica, come nella realtà che non c’è più voglia di ascoltare.
Cos’è che manca allora alla musica e agli artisti di oggi?
Forse l’interpretazione o l’anima nel fare musica. Oggi, con l’avvento dell’intelligenza artificiale, il rischio è quello di fare solo musica fredda, senza cuore e senza animo. Sì lavorerà come in un laboratorio, si cercheranno quei personaggi adatti al grande pubblico e si cercherà di confezionare pezzi sempre uguali. Si faranno prodotti solo per vendere e sparirà così l’unicità e l’identità degli artisti.
Invece, ritornando al tuo percorso, dopo l’incidente inizia un periodo non particolarmente facile per te…
L’incidente accadde in moto, ero partito da Roma per la Sicilia, dove dovevo fare un’ospitata in un evento. Per quell’occasione, portai un brano dal titolo Chador. Visto i temi che trattavo nel brano, e visto che inizialmente non si trovava l’autore dell’incidente, per paura e un po’ per timore, mi auto convinsi che non fu un incidente casuale. Decisi così di rimanere a Palermo e di non fare ritorno a Roma. Nel mentre, terminò anche il mio contratto con la casa discografica di allora. Così, tra il mio allontanamento e la fine del contratto, mi sono trovato a ricominciare da zero e non è stato per nulla facile. Mi sono dovuto rimboccare le maniche con diversi lavori e solo grazie all’entusiasmo di un corpo di ballo di giù, mi sono rimesso in gioco su un palco.
Com’è stato però ripartire da zero?
Complicato. Dovevo reiniziare una carriera artistica da zero e decisi così di ripartire anche con progetti più sociali, portando anche un mio progetto nelle carceri. Tuttavia, in quel periodo, mi sono dovuto reinventare anche in altri ruoli e lavori, per poter riprendere questo mio percorso artistico. Per poter riprendere quello che la strada mi ha tolto, sono entrato a far parte della generazione 1000 euro e ho capito che l’essere umano ha più pelli. Così, ho capito che il sipario tende sempre a chiudersi e che per tenerlo aperto bisogna reinventarsi ogni giorno. Renato (Renato Zero ndr.) e tanti altri artisti, mi hanno sempre detto: “il successo è difficile da raggiungere, ma ancor più è mantenerlo”.
Dal buio alla luce, un ritorno poi in grande stile e con diversi ruoli.
Sembra brutto, ma il lockdown mi ha dato la possibilità di contattare quelle persone che potessero in qualche aiutarmi. Fortuna volle, che riuscì così a contattare diverse persone, tra cui anche Leopoldo Lombardi (presidente della Rossodisera Records). Così da lì è ripartito il tutto e da una mia produzione, sono passato a diventare anche produttore e oggi all’essere artista e anche direttore artistico. Vedo la luce di un percorso non affatto facile.
Cos’è che ti ha dato fiducia in quel momento di smarrimento?
È stato periodo veramente difficile, ma mistico. Io devo tutto a mia madre e alla mia famiglia. Credevo nella dottrina e nella filosofia Buddista, ma dopo l’incidente, ho sentito l’esigenza di avvicinarmi a Dio e in lui ho trovato questa grande forza. Oggi forse è fuori moda appellarsi alla religione, ma sono convinto di aver avuto un aiuto concreto.
L’essere tornato a fare musica è per te una forma di riscatto?
Certamente! Questa voglia di riscatto viene raccontato anche nel brano La Ninnananna di Stefania. Con l’adattamento del brano dei Kalush, racconto la tragedia, le macerie e la guerra, ma racconto anche la speranza e quella voglia di riscatto per tornare a vivere la normalità. Un riscatto di vita per vincere la morte e la guerra. Quindi sì, essere tornato a fare musica è per me un riscatto e questo brano ne è la prova.