L’assedio di Medina – Nel febbraio del 627 d.C., un esercito di 10.000 uomini, al comando di Abu Sufyan, strinse d’assedio Medina, dove era asserragliato Mohammed con appena 3.000 combattenti. Gli assedianti appartenevano a svariate tribù: stanchi delle marce forzate nel deserto e con viveri per un periodo limitato di tempo, non si riconoscevano in comuni ideali religiosi, ne interessavano loro questioni politiche o commerciali, bramando solo un ricco e veloce bottino. Giunto presso mura di Medina, l’esercito si divise in due tronconi, al nord e ad ovest della città, continuando ad agire separatamente. Dal canto suo, Mohammed voleva evitare lo scontro campale, vista la differente consistenza degli schieramenti e – più che sufficientemente equipaggiato per resistere a un lungo accerchiamento – lavorò di diplomazia e di spionaggio.
Su consiglio dell’esperto militare persiano Salman, fece erigere mura là ove le case erano assai vicine e ordinò che venisse scavato un ampio fossato lungo il perimetro cittadino. A parte lievi scaramucce e qualche isolato atto eroico, una vera battaglia non vi fu: le tribù assedianti, logorate da un infruttuoso assedio, con limitate risorse alimentari e aspramente in contrasto tra loro, dopo poco più di un mese preferirono fare ritorno ai propri territori.
L’assedio di Medina passò alla storia come la “guerra di trincea” e grande rilevanza venne attribuita dalla storiografia islamica al fossato che circondava la città. Celebrata la vittoria con canti satirici, le tribù di Mohammed divulgarono una serie di leggende relative a questo grande fosso. Premesso che il lavoro di sterro era considerato umiliante (cfr. Corano, Sura XXIV) e accettato con estrema riluttanza, si narra che una ragazza, mentre recava al padre che scavava un pugno di datteri, incontrò il Profeta il quale le chiese di consegnargli quei frutti. Appena essi furono nelle sue mani, si moltiplicarono e più di 1.000 uomini poterono consumare un pasto abbondante.
Un’altra tradizione vuole che gli operai incontrassero grande resistenza in un masso, impossibile da frantumare: Mohammed si fece portare un secchio d’acqua, vi sputò dentro e iniziò a pregare. Quindi, versato il liquido sul macigno, esso si sbriciolò all’istante. Si riferisce ancora che il persiano Salman era inutilmente alle prese con un’altra grossa pietra. Il Profeta scese nell’incavo e colpì tre volte la roccia: e ogni volta da essa fuoriuscì un fascio di luce. Mohammed spiegò che il primo raggio significava la via aperta da Allah verso lo Yemen, il secondo verso la Siria, il terzo l’impegno dell’islam nel confronti di tutto l’Oriente.
Ciò che meraviglia è che Mohammed aveva sempre evitato di assumere la nomea di mago o di stregone nonche di affascinare i seguaci con artifici soprannaturali: voleva restare il profeta di Dio e riteneva indegno illudere i credenti.
Quindi è strano che la cronaca abbia potuto conservare il ricordo di tanti episodi miracolosi e sorprendenti verificatisi in occasione della realizzazione del fossato.
Al di là delle leggende, la vittoria degli assediati fu determinata dall’ingente numero degli avversari, che finirono per ostacolarsi a vicenda e a togliersi reciprocamente il coraggio di rischiare. Inoltre, lo scarseggiare del cibo e dell’acqua, le ambizioni differenti della varie tribù, il seme della discordia e del dubbio, sapientemente insinuato dagli uomini di Mohammed, furono le vere cause del fallimento di tale azione militare.