Alessandro Ferrari: da grafico a imprenditore. Tutto in nome del bene
Inventarsi qualcosa di originale in questo mondo a cui sembra non mancare nulla, si rivela un’impresa difficile. Ci è riuscito Alessandro Ferrari, grafico milanese che da qualche anno ha dato vita a un progetto, A.p.E. Social Wear, cresciuto moltissimo negli ultimi tempi. Merito della fantasia di Alessandro, che ha saputo dare vita a una novità recuperando qualcosa che si sta perdendo, ma di cui la società ha estremamente bisogno. Stiamo parlando di positività, proprio nella sua originaria definizione di bontà.
A.p.E. Social Wear, infatti, prendendo parte anche a diverse iniziative benefiche, è specializzata nella realizzazione di magliette, felpe e accessori raffiguranti frasi che inneggiano ad azioni e pensieri positivi. Il messaggio è chiaro: meglio provocare con parole propositive piuttosto che con volgarità. Parlare del bene, aiuta anche a concretizzarlo. Ce ne parla in questa intervista lo stesso Alessandro Ferrari.
Come nasce la passione per la grafica?
Alle medie avevo sviluppato un’attitudine al disegno tecnico e in generale alla parte artistica: mi piaceva affidarmi al colore potendo usarlo per mettere sempre qualcosa di fantasioso in tutto quel che realizzassi. Intrapresi quindi gli studi di grafica pubblicitaria al Caterina da Siena di Milano, dove probabilmente era un po’ segnato il mio destino senza saperlo: lì infatti anche un indirizzo di moda. Io però seguii il percorso di grafica. Mi appassionava disegnare i loghi delle aziende, creare qualcosa che poi avesse un risvolto nel marketing.
Il ramo della moda evidentemente rimase comunque nelle ambizioni, visto il tuo trascorso successivo.
Sì, ma in quel momento non potevo immaginare assolutamente cosa sarebbe accaduto dopo. In seguito ai cinque anni di grafica, entrai in una azienda per proseguire sempre su quella strada. Tutto andò avanti fino a quando non scoprii che mi sarebbe piaciuto fare l’educatore laico in oratorio.
E il disegno e la passione dei colori?
Non era del tutto sparita. Infatti, a Natale, regalavo ai ragazzi dell’oratorio una maglietta fatta da me col pennellino, con cui scrivevo una frase che già riecheggiava nel ritiro. Fu praticamente, senza saperlo, l’inizio di A.p.E. Social Wear, che però iniziò come Ape Italian Style, con una filosofia quindi un po’ diversa.
In cosa consisteva?
L’idea era di sottolineare la forza italiana nella moda, Partecipavo a serate in discoteca per promuovere il marchio: era quello che funzionava in quel periodo. Alcuni negozi del centro di Milano vendevano in conto vendita i miei prodotti. Mi resi conto, però, che mi scontravo con una realtà e un modo di gestire le cose che non mi appartenevano. Prima di tutto, per me, nelle cose deve esserci umanità.
E così ecco A.p.E Social Wear.
Volevo creare qualcosa che avesse un significato importante, ricercato anche nella sua stessa concezione. Se si usano parole positive, automaticamente si genera positività in chi le riceve.
Come nasce quell’ape graficamente?
Volevo scimmiottare i grandi brand che andavano di moda in quel momento. Così pensai: “Se c’è chi ha avuto successo con una margherita, io potrei farlo con un’ape”. Scelsi quell’insetto semplicemente perché in oratorio mi soprannominavano Ape in seguito a delle punture di api. Decisi però di separare le lettere da punti, anche per rendere tutto più intrigante: la gente avrebbe potuto immaginare che si trattasse di un acronimo con chissà quale significato. Non voleva dire nulla di specifico: ero semplicemente io e non poteva essere altrimenti. Il marchio ha sempre vissuto parallelamente a me: anche la sua stessa conversione è stata la mia in fondo.
Riepilogando: prima grafico vicino a un indirizzo di moda, poi educatore, quindi imprenditore di A.p.E Social Wear. Sembra che fosse tutto scritto nel destino della tua storia.
Ogni evento è sempre correlato, anche quando non lo immaginiamo. Quell’atteggiamento rivolto a promuovere il bene, ha generato amicizie pronte a supportarmi anche nei momenti più difficili. La cosa bella è che con A.p.E Social Wear si è creata una vera comunità, che ha compreso la positività del messaggio di fondo. Sono cambiate tante cose nella mia vita, ma è come se i tanti diversi ambiti attraversati dovessero portare su un preciso percorso.
Una vita a colori insomma. In tutti i sensi.
Vivere a colori è una canzone che ho usato anche per alcuni ritiri e rappresentazioni. Non credo che sia un caso. Ciascuno di noi vive diverse sensazioni, che corrispondono ciascuna a un colore. Così anche quando scrivo una cosa bella, lo stesso colore deve trasmettere quel messaggio. Sono poche regole che mi impongo, ma necessarie.
Quali sono le altre?
A scuola di grafica mi insegnarono, oltre all’abbinamento dei colori, anche l’importanza dell’intuizione e la cura del bello. Bisogna svecchiare, avvicinare i giovani con messaggi positivi, ma come potrebbe essere credibile tutto questo se esteticamente sono brutti? La realizzazione diventa insomma importante nella sua qualità.
Lo slogan di A.p.E Social Wear è “Il bene genera bene”. Funziona davvero?
L’ho sperimentato tante volte nella vita, anche con lo stesso marchio. Persino nelle persone che acquistano a volte si è espresso il concetto di restituzione: c’è quello che si propone come grafico, oppure per fare il fotografo. Evidentemente il bene porta a produrne dell’altro: la risposta di chi conosce Ape Social Wear è sempre molto positiva. Non ci potrebbe essere soddisfazione più grande.