Alessandro Vasta, divulgatore della musica italiana nel mondo – Ci sono esistenze che affascinano per la costante ricerca di bellezza, di conoscenza e per la curiosità verso altre culture, altri territori; esistenze che si mettono in viaggio nella consapevolezza o speranza che “ci sarà un altro posto nel mondo”, riprendendo le note parole di una canzone di Mario Venuti. Che ci sarà un altro posto in cui potersi sentire a casa.
In questa particolare categoria è ascrivibile il cantautore e musicista Alessandro Vasta, che di recente ha partecipato al festival online “La panchina dei versi – insieme contro il coronavirus”, ideato dal poeta ed editore Giuseppe Aletti, collegandosi dall’India e deliziando il pubblico della rete con le sue interpretazioni musicali e i suoi racconti di vita.
Si presenta così, Alessandro. «Sono un artista di strada che gira il mondo dal 2015 con uno spettacolo di musica italiana. Attraverso le canzoni del passato, racconto storie affrontando temi sociali, amorosi e di costume. Sono un one man band, sono un uomo orchestra (chitarra, canto, kazoo, armonica e percussioni): Gap’s Orchestra».
In questo ricercare, di mondi ne ha visti parecchi, Alessandro, catanese ma cresciuto a Udine. «Ho girato 27 Paesi», ci rivela. E di racconti, aneddoti ne ha raccolti tanti. «Ero negli Stati Uniti, stavo suonando per strada in una cittadina molto piccola, e c’era un signore, lì seduto, da prima che iniziassi a suonare. Mi ascolta per tutto il tempo, poi arriva, mi lascia una banconota e si presenta: “Ciao, piacere, io sono Santino”. Era italiano, era il barbiere del paesino. Santino mi portò da un altro italiano che aveva una pizzeria in un paesino vicino Seattle e suonai anche nel locale del ristoratore italiano, dove si raggruppò una piccola comunità di italiani. Una comunità italiana, in un paesino degli Stati Uniti».
Un ricordo molto dolce, che è legato sempre all’incontro con alcuni italiani emigrati, ci porta a San Francisco. «Ero stato invitato a suonare per alcuni emigranti italiani molto anziani. Avevano 70, 80, 90 anni, ed erano venuti negli States 70 anni fa. Mi sono ritrovato al loro pranzo domenicale e ho mangiato insieme a loro. L’esperienza dell’emigrazione è un argomento che mi tocca molto dal profondo e lo tratto nei miei spettacoli. E, quando posso immergermici, lo faccio volentieri».