“Stimo le bellezze di una femmina si possan indicare non pur ne’ vezzi e gentilezza del viso, ma più nella persona formosa e atta a portare e produrre in copia bellissimi figliuoli”. Con queste parole, Leon Battista Alberti significava le doti per cui una donna, tra i 15 e i 18 anni di età, fosse idonea a essere condotta all’altare. L’impegno generativo davvero ingente, come si vedrà, di cui le giovani dei secc. XIII-XV erano fatte carico si trovava all’origine sia dell’elevata mortalità infantile sia delle epidemie che falcidiarono quei nostri lontani antenati. È lecito pensare che nelle classi agiate una cospicua prole garantisse la prosecuzione dal casato e favorisse il prestigio gentilizio e il potere economico-politico; ma tuttavia, dedurre da questo soltanto che tutti i nuclei familiari contassero su un elevato numero di membri è un’azzardata conclusione, dal momento che non abbiamo specifiche fonti in materia. Siamo difatti in possesso in meri indizi, quali gli alberi genealogici dell’aristocrazia e dei testamenti nobiliari; ben poco conosciamo invece delle famiglie di medio ceto e ancor meno di quelle del popolo e della campagna.
Come dato generale, si può comunque affermare che non esisteva nel costume di tali epoche la volontà di programmare e limitare i concepimenti.
Sulla base dei Libri di ricordi che ci sono giunti dagli archivi del 1400, ricaviamo che le spose generavano circa 10 figli nel corso di un matrimonio della durata media di 20 anni. A motivo però della differenza di età nella coppia e delle non elevate prospettive di vita maschile la stima viene quasi dimezzata per cui, divenute madri intorno ai 17-18 anni, le ragazze esaurivano la propria attività riproduttiva in età ancora giovanile, diciamo verso i 28 anni; e questo, dopo aver sopportato gravidanze a ripetizione, intervallate da poco più di 16 mesi.
Come ho asserito, era elevata la percentuale dei decessi infantili (al pari della “monacazione” delle figlie di troppo); debbo adesso aggiungere che un altro dato in costante crescita fu quello delle interruzioni involontarie delle gravidanze. Comparando differenti fonti, può ritenersi esatto che una donna madre di 8 figli fosse incorsa in una ventina di aborti spontanei, con evidenti conseguenze sulla sua salute e finanche sulla possibilità di godersi la prole diventata adulta.
In questo fosco contesto, assai lontano dai nostri tempi ove, nelle sale-parto, costituisce la regola imbattersi nelle c.d. “primipare attempate” – ossia donne alla prima esperienza che abbiano superati i 35 anni – le giovani spose di cui sto parlando esperivano ogni mezzo per salvaguardare la personale incolumità. Considerato il livello della scienza medica di allora, esse facevano sovente ricorso a talismani, il più noto dei quali era la “pietra gravida”. Conosciuta anche con il nome di “pietra d’aquila” e diffusa a Salerno fin dal sec. XI, consisteva in un sasso rotondo, scavato per contenervi un altro di dimensioni inferiori. D’altra parte, le sole moglie di agiati consorti potevano contare su uno stile di vita tranquillo e un idoneo regime alimentare: la maggior parte delle popolane e delle contadine era costretta a continuare il lavoro, a svolgere i quotidiani incombenti già defatiganti per una persona priva di ulteriori pensieri.
Sorsero perciò istituzioni di assistenza, che sostenevano le madri nullatenenti con denaro, vestiti e cibo nei periodi più critici della gravidanza e dopo il parto. In uno Statuto comunale toscano, ho trovato una norma a tutela delle puerpere di campagna: seppure il furto di prodotti agricoli continuasse a venire severamente punito, vi si legge che a queste donne era permesso di “ire ne’ luoghi et possessioni altrui e tòrre delle frutti et cose delle quali le venisse volontà, sanza niuna pena”. Avvicinandosi poi la data del parto, le gestanti di ogni censo iniziavano a preoccuparsi di superare indenni il lieto evento, come testimoniato da un gran numero di testamenti veneti dell’ultimo Medioevo.
Uscite dalla studio del “notaro”, le donne si apprestavano a disporre l’anima per l’aldilà e si recavano dal curato a confessarsi e a chiedergli la celebrazione di una messa quale buon auspicio su questa terra e viatico nell’altra.
Mi fermo qui: nella prossima puntata vi parlerò delle forme estreme in cui evolse il ricorso alla pratica religiosa.