Oggi esce in digitale e in radio Fried Blues Chicken, primo singolo della band Escape to the Roof, estratto del nuovo album omonimo. Questo brano è il primo capitolo di un racconto surreale, inverosimile, unico nella sua complessità narrativa, in cui l’obiettivo dichiarato dell’artista è quello di porre l’attenzione massima sulla musica come arte collettiva e sul suo messaggio, in particolare sulle sonorità degli anni d’oro del rock, come atto di una vera “insurrezione”, per riscoprirne il valore profondo, prendendo in modo netto le distanze su tutto quello che oggi rappresenta la discografia, impermeata di apparenza, di superficialità, di “figurine”.
“Sicuramente il mondo non ha bisogno di ulteriori figurine da collezionare. C’è un sovraffollamento di figurine senza precedenti, e a dirla tutta io non mi sono mai sentito una figurina in mezzo alle altre figurine. L’idea di rivolgere un gesto artistico alla mercificazione tritatutto dello show business non è il mio mondo, per cui rispettare le leggi che regolano quest’industria non è nei nostri piani. Certo non siamo così ingenui da pretendere di restarne fuori e allo stesso tempo fare arrivare a più fruitori possibili il nostro lavoro. Ma pensiamo che fare un passo indietro, mettere al centro la musica distaccandosi dall’apparenza, alle volte possa significare prendere una rincorsa più lunga per spiccare un salto più alto”, spiega G.C. Wells, leader della band.
Per questo motivo la band ha scelto l’anonimato e non vuole rendere pubblica la biografia dei componenti, le loro apparenze, ciò che oggi invece sembra essere imprescindibile per l’industria musicale. Lo scopo ultimo è fare in modo che chiunque ascolti i singoli o il disco, si concentri il più possibile sulla scrittura, sul messaggio, sulla composizione, sui testi, sulle emozioni, sui temi di questo progetto discografico: “La storia ci ha insegnato – prosegue l’artista – che dissociare la biografia dell’autore dall’atto artistico non altera la possibilità di fruire, in tutta la sua potenzialità, il messaggio che da esso deriva, anzi credo sia l’unica cosa rimasta da fare come atto di nuova insurrezione rispetto a quello che ci circonda, così da aiutare l’ascoltatore a individualizzare meglio e a interpretare il messaggio per quello che è oggettivamente.
È l’unica maniera per fare diventare l’atto artistico arte collettiva – aggiunge – che è alla fine dei conti la massima aspirazione per un artista. Penso a Omero e alla questione omerica, dibattito acceso che mette in dubbio l’esistenza stessa del poeta. Penso all’anonimato che cancella gli artisti dall’epicentro del gotico francese, eppure le grandi cattedrali dell’Île-de-France continuano ad apparirci come capolavori indiscutibili, capolavori collettivi voluti e costruiti dalle comunità civili dell’epoca. O, per citare dei nomi a noi più vicini, Banksy, Blu, Elena Ferrante… credo che il proposito di questi artisti non fosse certo perché ‘fa tanto figo’ fare l’anonimo per farsi dare la caccia e finire poi, consapevolmente o no, a sedere tra gli ospiti di un programma del primo pomeriggio del venditore d’immagini di turno col sorriso scintillante sulla faccia. Quindi né moda né necessità di nascondersi, ma per dirla tutta, i nomi talvolta sono né più né meno che contrassegni per lapidi.”
In questa scelta, che nasce dall’urgenza interiore di fare un passo indietro e recuperare determinati valori che ormai sono dimenticati, la finzione ha un ruolo determinante come fonte di conoscenza. L’intreccio fantasioso delle biografie dei componenti della band (G.C.Wells, vocals, guitars; Jann Ritzkopf VI, guitars, soundscapes; Zikiki Jim; bass; Canemorto drums), che verranno raccontante man mano nel corso dei prossimi capitoli, fa parte del gioco: “non siamo in preda agli spasmi romantici della nostra arte, e non abbiamo perso l’abitudine o il gusto del divertimento, anzi. Le storie di contorno fanno parte del gesto artistico in tutto e per tutto. È opinione abbastanza condivisa che le opere letterarie, e quindi, la finzione possa essere molto importante, se non addirittura fondamentale quale fonte di conoscenza.
Non vuole essere certo la mera sostituzione della biografia reale dell’autore con la fiction quale sacrificio da immolare sull’altare dell’anonimato, ma è certamente qualcosa di più. Gli antichi greci scrivevano le tragedie con lo scopo dichiarato di educare il popolo per il tramite della catarsi. Noi non ci arroghiamo il diritto di mistificare così in alto, vogliamo semplicemente giocare con la materia narrativa e descrittiva, che sia di natura musicale, letteraria, teatrale ecc., senza preoccuparci troppo che questo possa innescare confronti da sostenere con illustrissimi predecessori, o con l’incertezza che ci sia qualcosa che non si possa sperimentare per paura di dissacrare, o peggio, col timore di sconfinare in “territori occupati” da altri artisti.”
Anche il luogo di nascita rimane nascosto: “la geo localizzazione! È ovvio dunque, che, come per le influenze, anche il fatto di essere nato e cresciuto in un luogo, in una nazione piuttosto che in un’altra, porti con sé tutta una serie di connotazioni specifiche che, volenti o nolenti, hanno la loro ricaduta sull’argomentazione artistica. Giorgio Gaber cantava “io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”. È un verso che, gira e rigira, mi torna sempre più spesso in mente. Ma per quanto mi riguarda, non è una cosa polemica, o politica. È che le concezioni di nazionalità, patria, ma anche casa e famiglia, sono tutti concetti che ho scelto di sublimare e astrarre, o declinare in maniera del tutto personale, alle volte anche pagandone individualmente lo scotto a caro prezzo”, conclude G.C. Wells.
Il singolo Fried Blues Chicken si iscrive in questo racconto e propone una metafora della vita, sulla società, sulla produttività in batteria, che parte dalle parole di Margaret Heffernan che riprende lo studio sui polli di un biologo evoluzionista della Purdue University, William Muir: “Muir s’interessava di produttività, una cosa che penso riguardi tutti noi, ma che nei polli è facile da misurare perché basta contare le uova. Voleva sapere come rendere i suoi polli più produttivi, così escogitò un bell’esperimento. I polli vivono in gruppi, quindi ne selezionò una colonia media e la lasciò crescere per sei generazioni. A questo punto, creò un secondo gruppo composto dagli individui più produttivi, che chiameremo ‘superpolli’. Questi furono riuniti in una super colonia, selezionando da ogni generazione soltanto gli individui più produttivi. Dopo sei generazioni, indovinate cosa scoprì? I polli del primo gruppo, quello medio, se la passavano benissimo. Erano tutti belli grassottelli e ben piumati e la produzione di uova era aumentata notevolmente. E il secondo? Tutti morti, eccetto tre superstiti che avevano beccato a morte tutti gli altri.”
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