I Novotono a Piacenza Suona Jazz – Just Humans: con il sottotitolo di Piccolo Festival dei Diritti, Grande come una città e Amnesty International presentano dal 15 al 17 settembre alla ArenAgnini di Viale Adriatico 136 a Roma un momento di riflessione sul vasto tema dei diritti umani attraverso la proiezione di tre importanti recenti film (gratis previa prenotazione). Si apre il 15 settembre con I’m not your Negro di Raoul Peck, documentario sulla vita e gli scritti di James Baldwin. L’incontro sarà introdotto da Joseph e Miriam di Black Lives Matter Roma, Amin Nour di NIBI (Neri italiani – Black italians), Ilaria Masinara di Amnesty International e Gianni Ruocco per Grande come una città. Il 16 settembre in programma Alla mia piccola Sama, la storia strabiliante di una regista siriana di 26 anni, Waad al-Kateab, che ha filmato la sua vita in Aleppo, da ribelle, durante i 5 anni di rivolta siriana raccontando la tragedia dal punto di vista di un Pronto Soccorso; ad introdurre saranno questa volta Laura Aprati (giornalista Rai, documentarista, autrice tv), Tina Marinari di Amnesty International, Rita Coco per Grande come una città. Si chiude il 17 settembre con A Dog called Money, il documentario di Seamus Murphy attraverso l’intimità, le emozioni e le culture della musica di PJ Harvey. La proiezione sarà introdota da Maddalena Perfetti di Amnesty International e Sabrina Zunnui per Grande come una città.
I am not your negro
Regia di Raoul Peck
Titolo originale: I Am Not Your Negro
Genere: Documentario
Produzione: USA/Francia 2016
Durata: 95′
Uscita al cinema: 21 marzo 2017
Distribuito da Wanted
Con Samuel L. Jackson
Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13
Lo scrittore James Baldwin si è sempre occupato del razzismo in America. Il documentario prende in esame la sua opera. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, ha vinto un premio ai BAFTA, 1 candidatura a Spirit Awards.
Pensato in una vita e lasciato ai posteri come manoscritto incompleto, “Remember This House” di James Baldwin non è mai stato pubblicato. Raoul Peck ne ha acquisito i diritti per realizzarne un documentario “testamentario” sulla secolare questione dei neri, mescolando materiali d’archivio al proprio girato sullo sfondo dell’inedito testo letto da Samuel L. Jackson. Aveva uno sguardo indimenticabile James Baldwin. Forse per questo Raoul Peck l’ha messo in primo piano sulla locandina del suo film I Am Not Your Negro, gemma preziosa estratta – e rielaborata con cura – dalla miniera d’oro degli scritti del grande attivista/pensatore/scrittore nato ad Harlem nel 1924 e morto in Francia trent’anni fa.
Il viaggio del regista haitiano – e nero – sulle tracce inedite di Baldwin inizia con una carrellata longitudinale sotto una delle sopraelevate di New York, di quelle destinate a confluire in un ponte. Non è un caso: ciò che Peck si appresta a mostrare è il non facile collegamento fra quel manoscritto frammentario di 50 anni fa e l’attualità, dimostrando quanto sia drammaticamente pertinente.
Partendo dalle apparizioni dello stesso Baldwin in diversi tv show americani e in alcune lezioni universitarie, il materiale selezionato e montato dal regista si arricchisce di un collage di sequenze cinematografiche estratte dai film che – nel bene o nel male – hanno forgiato l’immaginario collettivo dell’identità dei “blacks”, anzi, dei “negri” ricordando la radice etimologica del termine “nero” riferita alle tenebre, alla morte. “Io stesso fin da piccolo – ricorda Baldwin letto da S. L. Jackson – ero talmente invaso da immagini di bianchi che uccidono gli indiani nei Western da rendermi conto che come ‘nigger’ ero l’indiano della situazione, il diverso, il nemico”.
Inedita quanto importantissima, la quest di Raoul Peck ereditata dal suo mentore è proprio relativa all’identità dell’essere nero, travisata dalla Storia raccontata dai vincitori. Già, perché, ricorda sempre Baldwin, “Il mondo non è bianco, né lo é mai stato. Bianco è solo il colore del potere”. Lo spunto storico dei ragionamenti contenuti in “Remember this House” furono le vite e le morti (per omicidio) dei tre grandi leader della battaglia per la parità dei neri, diversamente manifestata in Medgar Evers, Malcom X, e Martin Luther King. Le tre figure emblematiche servono da fili conduttori cronografici ma anche emblematici di un agire differente rispetto a cause pressoché uguali.
Alla mia piccola Sama
Regia di Waad Al-Khateab e Edward Watts
Titolo originale: For Sama
Genere: Documentario
Produzione: Gran Bretagna 2019
Durata: 100
Uscita al cinema: 13 febbraio 2020
Distribuito da Wanted
Con Jasmine Trinca
Consigli per la visione di bambini e ragazzi: +13
La storia strabiliante di una regista siriana di 26 anni, Waad al-Kateab, che ha filmato la sua vita in Aleppo, da ribelle, durante i 5 anni di rivolta siriana. Il film ha ottenuto 1 candidatura a Premi Oscar, 4 candidature e vinto un premio ai BAFTA, ha vinto un premio ai European Film Awards, 1 candidatura a Spirit Awards, 1 candidatura a Producers Guild.
Waad è una studentessa universitaria quando, nel 2011, sull’onda delle primavere arabe, la gioventù di Aleppo insorge contro la dittatura di Bashar al-Assas e ne domanda a gran voce la fine. La repressione del regime però è spietata e dà luogo alla più sanguinosa guerra civile del nostro presente. Molti fuggono, ma Waad resta, a fianco dell’amico Hamza, che diventa in quegli anni suo marito e anche l’ultimo medico rimasto, nella zona ribelle, per curare centinaia di feriti al giorno, nei mesi atroci dell’assedio della città, nel 2016.
Alla mia piccola Sama è la video-lettera che Waad al Kateab scrive alla loro bambina, nata sotto i missili russi e i barili bomba, per spiegarle perché i suoi genitori sono rimasti ad Aleppo e perché l’hanno tenuta con loro, a rischio della loro vita e della sua.
La guerra in Siria è stata copiosamente raccontata e documentata con ogni mezzo audiovisivo, cosa che rende ancora più terribile l’astensionismo del mondo occidentale dall’intervento in soccorso della popolazione, perché le immagini non hanno mai lasciato adito a dubbi e la tragedia si è consumata giornalmente sotto i nostri occhi, fino all’anestesia dell’assuefazione.
Eppure, in questo panorama, Alla mia piccola Sama è a suo modo un caso unico, probabilmente il film più potente che ci sia arrivato, sicuramente il più emblematico, per una pluralità di ragioni, sulle quali primeggia la posizione della videocamera di Waad al Kateab: al centro di un bersaglio annunciato.
Ma c’è di più, perché il film non si configura solo come un potenziale testamento privato e collettivo in fieri, ma anche come il racconto urgente e umanissimo di una crescita personale, accelerata dagli eventi, che trasforma una ragazza in una donna e madre, e una giovane filmaker in una giornalista coraggiosa e rispettata, una voce dalla primissima linea, tutto senza pregiudicare l’intimità del suo obiettivo, inteso nel duplice significato di mezzo e fine.
Al centro di ciò, e dell’immagine e del sentire dello spettatore, c’è la piccolissima Sama, cuore pulsante della rivoluzione, termometro di sopravvivenza, miracolo incastonato nell’orrore della tragedia nella tragedia: il genocidio dei bambini siriani. Della loro sofferenza, ma anche della loro resistenza, Sama è il simbolo toccante e universale.
PJ Harvey, a dog called money
Regia di Seamus Murphy
Titolo originale: A Dog Called Money
Genere: Documentario
Produzione: Irlanda/Gran Bretagna 2019
Durata: 94’
Distribuito da Wanted
Con P. J. Harvey
Un viaggio attraverso l’intimità, le emozioni e le culture della musica di PJ Harvey.
La musicista britannica PJ Harvey ha accompagnato più volte il fotografo irlandese Seamus Murphy nei suoi viaggi, in Afghanistan, Kosovo e a Washington DC. Dai suoi appunti ha tratto spunti per il disco “The Hope Six Demolition Project”, contenente 11 tracce, registrato in uno studio costruito appositamente a Londra e pubblicato nel 2016. Il film è l’unione delle parole e le note della Harvey e delle immagini di Murphy.
Cantante di culto fin dagli anni ’90, nota anche per le collaborazioni con Nick Cave e Thom Yorke, PJ Harvey è artista versatile: nel 1998 aveva recitato in The Book of Life di Hal Hartley.
Murphy riesce, senza farne un ritratto, a trasmettere lo sguardo che la musicista ha sul mondo e a raccontarne l’ispirazione e il processo creativo. Un qualcosa di difficile da rendere, senza essere didascalici, eppure il fotografo, alla prima regia, riesce magicamente a farlo. Si parte da Kabul, il luogo che ritorna più spesso nel film, con un bambino con il naso appoggiato al finestrino e un cinema distrutto. Poi la Harvey cammina per strada e, con la sua voce sottile, condivide alcuni pensieri sulla città. Sono appunti, materia per comporre poi le canzoni, e sono tra le poche parole di un film che coinvolge senza dare troppe spiegazioni.
Segue l’allestimento di uno studio di registrazione che, come per un’installazione, è fatto per dare al pubblico la possibilità di assistere alle incisioni attraverso una vetrata. È questo dispositivo che permetterà di fare come se tutte le persone incontrate nei viaggi fossero presenti e partecipanti nel momento della composizione e dell’esecuzione. Tra un brano e l’altro, ci sono le modifiche, i suggerimenti, le richieste di consigli, ma anche gli scherzi e i giochi di parole.