Dodici brani tra poesia elettronica, archi, fiati, cordofoni e percussioni
“Un disco invernale e magico”
Si intitola IL GRIDO DELLA FATA ed è il nuovo album del cantautore genovese Max Manfredi, un vero e proprio artista della parola cantata e riconosciuto maestro di quell’alchimia che riesce a fondere la forza delle parole con il fascino della musica, facendone una cosa unica, preziosa, artigianale.
Non si tratta di concept album, “non ne ho mai fatto uno”, spiega Max Manfredi, “ma tra queste canzoni si respira un’aria di buon vicinato, come tra i panni stesi dai dirimpettai. IL GRIDO DELLA FATA è un album invernale e magico”.
Il titolo è un verso di un componimento del poeta francese Gerard De Nerval. “Ci ho riflettuto e poi, giunto in momento di scegliere – dice con la sua grande ironia – mi sono avvalso della metodologia suggerita da un regista italiano, Enzo G. Castellari, nella sua disamina della differenza tra le locuzioni “sti cazzi” e “me cojoni”, spesso ignota a chi non conosca gli usi linguistici romani, riferita, in questo caso, alle possibili risposte ad un qualsiasi titolo. IL GRIDO DELLA FATA si merita un bel “me cojoni”, se non altro in omaggio al poeta francese”.
Max Manfredi ha pubblicato sei dischi prima di questo nuovo e quattro libri, ha vinto numerosissimi premi (fra cui una targa Tenco per il miglior disco dell’anno, “Luna persa”, nel 2008) ma più che tutto questo, a presentarlo sono le sue canzoni. L’originalità indiscussa del suo linguaggio poetico e musicale lo ha reso oggetto di studi e tesi universitari.
Dal punto di vista delle sonorità, IL GRIDO DELLA FATA, si contraddistingue per l’uso dell’elettronica (“ce n’è una presenza ampia e variegata”) che, in ogni caso, non ha limitato le collaborazione con musicisti presenti e vivi: archi, fiati, cordofoni e percussioni.
Si passa quindi dal violino al koto elettrico, insomma, per dodici brani, caratterizzati dalla poetica distintiva dell’artista genovese che spiega: “datare i brani di questo disco è impossibile, da tanto hanno sopravvissuto e per quanto sono stati reinventati. Vengono in mente i fossili di insetti o impronte conservati nell’ambra. Cosa c’è di più nuovo di un fossile riscoperto? Ancora più difficile sarà, per l’ascoltatore, distinguere i brani vecchi da quelli nuovi.”
L’album è stato registrato con e da Marcello Stefanelli e Gabriele Santucci. E’ passato poi nelle mani sagaci di Fabrizio Ugas che lo ha setacciato togliendo ed aggiungendo strumentazioni a suo genio, “è stato riascoltato poi da noi per l’ennesima volta, e infine licenziato, sempre con il timore di aver tralasciato qualcosa, o messo mezza nota di troppo. Timore reverenziale, pari a quello di certi cuochi leggendari nei confronti delle loro vivande”.
LA GUIDA ALL’ASCOLTO a cura di MAX MANFREDI
1. Scimmia grigia
Apre il disco, guidata dal basso di Bob Callero e dalla batteria di Ezio Zaccagnini. E’ forse il pezzo più ritmico. La consapevolezza di dover convivere con gli angeli messaggeri della supremazia e dell’inflazione telematica sì stempera con ironico incantamento nell’evocazione segreta della poesia di un trovatore medioevale che ci regala l’ultima immagine del brano, trasformando la plausibile allegoria di un’alienazione nella figura di un antico Bestiario. Capito? No? Poco anch’io. Ascoltatela, allora.
2. Sala da concerto
Non si capisce il perché del titolo, ma si è sempre chiamata così. Una canzone d’amore al condizionale? Un brano che parla dalla solitudine cittadina?
Pochissime pennellate e uno sfrenarsi finale di suoni, dalla sega musicale allo “stufofono”, al theremin campionato e trattato, che fa pensare a radio perdute e lavori in corso nell’appartamento vicino.
3. Nostra Signora della Neve
È il nome di molti santuari. Qui è la destinataria di una disperata supplica d’amore, di quell’amore che riguarda il “paesaggio” di qualcuno. E il paesaggio è invernale e in campagna è pieno di sortilegi, come il personaggio della canzone.
4. Malvina
È un nome gaelico. Un aiutante, ombra o demone o manager, qui chiamato semplicemente “il mister”, prova ad allontanare qualcuno da una scena bretone, dove Malvina è un’artista che ammalia, suonando l’arpa, una classe di vecchi in vacanza turistica. Sì, il brano potrebbe essere interpretato così.
Vincenzo Zitello, mago e ospite.
5. Nasi Goreng
E’ una nota pietanza della cucina indonesiana. Il teatro è di guerra. Può riferirsi alle operazioni di “pulizia” commesse dai Nipponici dopo la battaglia di Singapore, persa dagli eserciti alleati. Sì ricorda anche l’antica guerra fra Coreani e Giapponesi detta Jimin”, in cui, nei massacri perpetrati dai Nipponici ai danni della popolazione verso la fine del sedicesimo secolo, tragici trofei di guerra furono proprio dei tumuli di nasi.
Il testo è di Sante Boldrini e Max Manfredi. La musica è stata “inventata” dal programma di un tablet, ed eseguita con strumenti asiatici reali da Elisa Montaldo.
6. Polleria
Di solito uno non ci fa caso, ma, specialmente nei giorni freddi, il profumo proveniente dagli spiedi elettrici è un amo irresistibile. Una canzone di solitudine, ancora. Gli amici ci sono, ci sono stati. C’erano. L’inappartenenza si fa palpabile fino ad allontanarsi e non c’è nulla da rimpiangere. “Sì però questa non è casa mia”. Una canzone che si snoda lungo le rotaie di un treno o di un tram, come gli antichi blues, ma non è un blues.
7. Il Guastamori
Chi è il guastamori? E quali amori guasta? I suoi? Quelli che ama? O quelli che amano quelli che lo amano?
Perché quest’anima di buongustaio frettoloso è dannata a trovarsi bene nel presepe attraverso cui passa tra discrete citazioni “industrial” e illuminazioni mancate redatte in immagini? Qual è, nella moviola, l’anello mancante dell’intervallo che tiene unito il film?
8. Rosso rubino
È il colore del vino che generosamente si serve il nostro Re spodestato, più inutile dei suoi sudditi inesistenti e del suo giullare-sosia. Spodestato come la vittima di un carnevale medievale. Ma da chi, da cosa?
Il re è sempre spodestato dall’amore. Sì rivolge a qualcuno che non c’è, protestando il suo amore, ma affrettandosi ad aggiungere: “tanto non c’è rischio, so che indietro non ritorni”.
L’esorcismo dell’amore non può che risvegliare i diavoli nascosti ed involuti di una cittadina in provincia della neve, e cristallizzarsi nella poesia inquietante e pornografica degli annunci pubblicitari.
9. Apis
È, tra le altre accezioni, il nome dell’ape comune, quella che, secondo il poeta Pascoli, fa miele della sua stessa illusione, con tanto di ronzio incorporato nella stupenda dieresi. Ma davvero abbiamo una generica realtà da contrapporre all’illusione? O è il caso di accettare con gratitudine, al pari della scienza e delle parole, il desiderio stesso che le ha inventate e che le rende vane?
10. Elicriso
E’ una canzone raccontabile, decifrabile. Argomento: emigrazione. Epoca: inizi del Novecento, i grandi trasporti. Luogo da: ho pensato alla Sardegna, dove ho imparato a riconoscere questa pianta e dove c’è “la porta dell’argento”, il Gennargentu, di cui si parla nel brano. Ma uno può ambientarla dove vuole. Si sfiora anche il tema dell’analfabetismo e della scolarizzazione: segno che è davvero ambientata in altra epoca che la nostra.
10. Canzone del Finale
Viene detto “Finale” il culmine dei fuochi d’artificio, quando i razzi si scatenano prima di terminare le loro esplosioni di colore. L’ospite, non invitato, della festa in una villa, come in un fenomeno di abduction spazio-temporale, si ritrova la mattina dopo, in un salone diroccato, a chiedersi chi fossero tutti quei fantasmi.
12. Il grido della fata
Chi pronuncia, se di pronuncia si può parlare, il Grido della Fata, l’album che dà il titolo alla canzone? Chi parla per lei o chi da lei viene parlato? Questa canzone contiene il rivolgimento di genere più bizzarro di tutta la musica leggera, in quanto puramente grammaticale.
Sembra di sentire parlare l’autore, o chi per lui, e poi invece è la fata che lo ha sedotto a parlare e rivendicare il diritto di eluderlo, se non proprio di farlo scomparire dalla sua canzone.
E il disco chiude con questa allegoria dello svanire dell’autore nella sua creazione, non in senso sociale, ma chimico. In faccia a quelli che parlano di brani autobiografici.
“Specchio, come mi son riflesso in te mi hanno ucciso i miei profondi sospiri”, cantava un altro trovatore medioevale.
Questo “Grido” è pieno di giochi di specchi, trucchi, rifrazioni, vetrofanie e vetrofoni, musiche di cristalli.
MAX MANFREDI
Max Manfredi nasce a Genova. Inizia a suonare la chitarra all’età di 7 anni componendo le sue prime canzoni (non conservate) a 13 anni.
Durante il periodo scolastico ed universitario comincia il suo percorso artistico sia nel campo teatrale come attore e regista di compagnie filodrammatiche, che come musicista dedicandosi alla musica folk con il gruppo “Quelli di Villa Bell’Eri”, in seguito “Gruppo Genovese di Musica Antica”, una formazione musicale specializzata nella musica dei trovatori, di cui ancora fa parte.
Nel 1985 viene invitato come artista emergente al Premio Tenco, la “Rassegna di canzone d’autore” creata da Amilcare Rambaldi in memoria di Luigi Tenco. Lì Max spiazza e incuriosisce pubblico e critica (almeno la più curiosa e avveduta), e riceve i caldi complimenti di due fra i più importanti personaggi della storia della canzone d’autore: Dave Van Ronk (“You know, you sing fucking good, like Ella Fitzgerald”) e Bolulat Okuzdava.
Nel 1990 vince la prima edizione del Premio Città di Recanati, manifestazione dedicata alla canzone d’autore, con la canzone “Via G. Byron Poeta”. (https://www.youtube.com/watch?v=3Lr7DPPGtMw&ab_channel=musicultura)
Sempre nel 1990 pubblica per BMG Ariola/ Cantare in Italiano il suo primo LP dal titolo “Le parole del gatto”, che si aggiudica la Targa Tenco per la migliore opera prima.
Nello stesso anno duetta con Sergio Endrigo nel 45 giri “Tango rosso”. (https://www.youtube.com/watch?v=A8Zeg47wllE&ab_channel=FrancescoMontanari)
Nel 1994 esce la seconda opera discografica, “Max”, con la partecipazione di Fabrizio De André che canta ne “La fiera della Maddalena”, brano utilizzato come sigla di diversi programmi e rassegne e, in particolare, per la scena finale del film Faber, e che conoscerà una fortuna crescente sul web. Tre anni dopo, in un’intervista con Monica Di Carlo, Fabrizio De André definirà Max Manfredi “il più bravo” tra i cantautori italiani.
Manfredi non limita alla musica la sua attività di musicista. Pubblica il “Libro dei Limerick” per Vallardi.
In quegli stessi anni si infittiscono gli impegni nel campo della musica antica, in particolare medioevale, rinascimentale e barocca, con L’Accademia Viscontea di Milano
Dal 2000 Max Manfredi svolge vari concerti all’estero, a Saint Malo, Istanbul, in Svizzera e in Francia, , Monaco e Berlino.
Nel maggio 2001 pubblica il terzo cd, “L’intagliatore di Santi”, che attira nuovi estimatori sino a farlo diventare vero e proprio personaggio di culto.
Nel settembre del 2002 viene invitato, come rappresentante della musica italiana, alla Biennale di Belem, in Brasile.
Nel 2002 dà alle stampe il suo non-romanzo Trita Provincia, per i tipo di Liberodiscrivere, distribuito da Feltrinelli.
Nel 2004 esce il suo CD – live, Live in blu, con Storiedinote.
Nell’anno successivo riceve tre importanti premi: Premio Lunezia, Premio Lo Cascio, premio come “miglior solista” al Meeting Etichette Indipendenti di Faenza.
Sempre nel 2005, la Tv tedesca Bayerischer Rundfunk realizza un documentario su di lui con una lunga intervista lungo i luoghi tipici di Genova, in una serie televisiva chiamata “Bella Italia”, che va in onda in tutti i paesi di lingua tedesca.
Nel 2006 presenta alla Galleria d’Arte Moderna di Genova la sua “silloge gracidante” “Batrax”: una lettura de “Le ranocchie turchine” del poeta futurista Enrico Cavacchioli. Nella primavera 2007 collabora, in veste di musicista ed attore, con il Teatro della Tosse di Genova, per il recital “Poeti vs Cantautori” con la regia di Tonino Conte mentre in autunno tiene un intero tour in Francia, Belgio, Svizzera e Germania.
Continua intanto un’intensissima attività live anche in Italia (nell’estate 2007 si è esibito in un breve tour in Sardegna, fra l’altro nell’anfiteatro di Orosei, nel Teatro di Nuoro (insieme a Enzo Jannacci) e nella casa di Grazia Deledda.
In questi anni viene spesso invitato, come cantautore o dicitore, al Festival Internazionale di Poesia di Genova diretto da Claudio Pozzani, dove una volta compare come ospite del grande cantautore tedesco Wolf Biermann.
Nell’autunno 2007 è nuovamente ospite del Premio Tenco, dove presenta fra l’altro un inedito, “Il regno delle fate”, a detta di molti (Gianni Mura su Repubblica: “una delle più belle canzoni scritte in Italia negli ultimi anni”).
Nel 2008 partecipa allo spettacolo teatrale “Viaggiatori viaggianti” di Sergio Maifredi e mette in scena, in luglio, lo spettacolo “Le vie del sale” che apre la rassegna “L’Isola in collina” di Ricaldone, a cura di Enrico De Regibus.
Tra maggio e luglio registra l’album Luna persa. Il disco esce il 26 settembre 2008, pubblicato da Ala Bianca Group e distribuito da Warner.
L’album riceve fra l’altro le lodi dell’esimio linguista Tullio De Mauro, in forma di lettera privata.
Nel 2009, in febbraio, viene pubblicato “Nitrito in velocità” (M&M edizioni), racconto per ragazzi di Max Manfredi e Serena Giordano con illustrazioni di Serena Giordano ispirato al dipinto di Fortunato Depero. In allegato Dvd con il racconto letto da Max.
In autunno “Luna persa” vince la Targa Tenco come miglior disco dell’anno al Premio Tenco.
Nel 2014 esce il Cd “Dremong, Primigenia/Caligola, che viene trasmesso in centinaia di radio e televisioni private e nazionali.
Nel 2018 licenzia una versione in audiolibro di Trita Provincia, letto da lui stesso e musicato e prodotto da Federico Bagnasco.
Nello stesso anno pubblica con la casa editrice Galata un suo testo teatrale, Faustus (da Goethe, Spies e altri) che mette in scena nello stesso anno per la prima volta al Teatro Garage di Genova, e continua ad essere un assiduo, tormentato work in progress.
IL GRIDO DELLA FATA è il suo settimo album.
“Non avrei nemmeno pensato – dice Max Manfredi – di fare il mestiere del cantautore. Anche se dubito che avrei trovato un lavoro “onesto”. La laurea in tedesco l’ho presa, ma non l’ho nemmeno ritirata dalla segreteria. Invece sono andato al Club Tenco e lì ho scommesso sul mio futuro, nel senso che ho deciso di non fare altro se non le cose cui tenevo, e che so di poter fare bene, indipendentemente dai buoni esempi e dai molti cattivi. Se io poi abbia vinto, non lo so, diciamo che finora c’è stato un bel pareggio”.