Il leone e l’aquila – Nei Ricordi del mercante fiorentino Giovanni di Pagolo Morelli (1371-1444), si legge che “alla porta di San Frediano, per la quale entrò lo vettorioso capitano, istette uno lioncino vivo, ma di poco tempo, a lo quale tutti li pisani baciarono lo culo”. A cosa si riferiva lo scrittore e che c’entrano i leoni con Firenze? Sappiamo tutti che questa fiera belva è l’emblema di Venezia, a seguito dell’elezione a patrono dell’evangelista Marco – detto il “leone alato” per il suo acume teologico – dopo l’ardimentoso trasporto dei suoi resti da Alessandria d’Egitto nell’828.
Meno è noto che a Firenze, presso Ponte Vecchio, vi era una statua dedicata al dio Marte e considerata la fonte di tutti i dissidi e i disordini che opprimevano la città sia all’interno che all’esterno. Quando perciò nel 1333 una piena dell’Arno spazzò via l’odiato simulacro pagano, esso venne sostituito da un altro che simboleggiasse la fierezza e il coraggio della città. La scelta cadde sul leone, già allevato a Firenze dalla seconda metà del sec. XI – secondo la poetica testimonianza satirica di Guittone di Arezzo – e custodito in alcune gabbie poste nei luoghi cittadini centrali (Palazzo del Potestà, Battistero, Palazzo dei Priori).
Il fiero animale divenne così l’emblema fiorentino ed effigiato in numerose statue, con il nome di “marzocco”, derivato da “martocus” ossia “piccolo marte”.
Ma torniamo al fatto di partenza. Riferisce lo scrittore citato in apertura che, al seguito del capitano, fecero ingresso in città alcune decine di carri che trasportavano prigionieri pisani: sul primo di essi era saldamente legata per le zampe un aquila con il cappio al collo. Si trattava dunque dell’esito di uno scontro armato: ma, visto che fiorentini e pisani se le sono menate di santa ragione per tantissimi decenni, a quale specifico avvenimento si fa cenno?
Correva l’anno 1364 e il perenne conflitto tra le due signorie non registrava significativi progressi per nessuna delle due contendenti. Finalmente, i fiorentini riuscirono a ribaltare una situazione d’assedio a loro sfavorevole e ad accerchiare le mura di Pisa. Onde provocare una reazione inconsulta dei difensori, gli assedianti pensarono di stuzzicarli con alcune sottili provocazioni, quali organizzare tornei cavallereschi, disputare il palio dei barattieri e quello delle prostitute. Non sortendo ciò effetti favorevoli, anche i fiorentini si stancarono e, in una soleggiata mattina di luglio, i comandanti permisero ai soldati di prendere un bagno nelle acque del fiume.
I pisani vennero tempestivamente avvertiti di questo momento di disorganizzazione e tentarono di sorprendere le milizie nemiche dedite alla balneazione. Ma i fiorentini, grazie al coraggio delle truppe mercenarie tedesche e genovesi, si ricompattarono immediatamente e non solo tennero brillantemente testa agli attaccanti, ma riportarono un’insperata quanto solenne vittoria: i prigionieri catturati vennero caricati su cinquanta carri e tradotti a Firenze insieme ad una delle aquile che i pisani erano soliti recare con se nelle campagne militari ad effigie vivente della propria potenza e invincibilità.