Sempre a proposito di anguille e di teste, ricordo che ancora oggi, in alcune località di confine tra Lazio e Campania, viene consumata una minestra, o una pastasciutta al sugo, entrambe condite con testa e code di anguilla di fiume, mentre il resto del pesce viene consumato arrostito, o al sugo o alla cacciatora.
Pressappoco negli stessi luoghi, ma nelle zone costiere, nell’immediato dopoguerra furoreggiò un piatto che si diffuse rapidamente in tutt’Italia: gli spaghetti, o linguine, con telline (arselle) al sugo di pomodoro con aglio, olio, pepe, oggi invece, quasi ovunque, consumate senza pomodoro.
Un pesce che i romani hanno sempre consumato in grandi quantità, anticamente fresco ed ora soprattutto in scatola, è il tonno. Parlo del tonno “da corsa“ pescato nelle mattanze, diverso da quello consumato abitualmente oggi in scatola. Un pesce adulto che, attraverso Gibilterra, entrava nel caldo mare Mediterraneo per consumare il rito della riproduzione.
La sua polpa era scura, compatta e saporita (ricordate il termine “morello”?) e le femmine gravide provvedevano, loro malgrado, a rifornirci di bottarga e ventresca, oggi poco comuni, sia per il prezzo elevato che per scarsità di prodotto, essendo invalsa l’abitudine di pescare con navi attrezzate, grandi branchi di giovani tonni oceanici, prima del rito riproduttivo, dai quali si ricava una carne più rosea e morbida ma, meno gustosa.
Dei grandi tonni mediterranei veniva usato praticamente tutto, anche le parti meno pregiate con le quali si produceva il tarantello di tonno salato o sott’ olio. Dopo la ventresca, le parti più pregiate erano le grandi trance del corpo. Comunque del tonno, come del maiale, si consumava tutto, anche gli scarti della cottura fatta per l’inscatolamento, (pezzi, pezzetti, pezzettini, briciole e buzzonaglia) ed ogni parte aveva un suo prezzo ed un suo mercato.
Non posso non parlare di un piatto romano tipico e gustoso, oggi poco consumato: la minestra di pesce con broccoli o meglio, quando si trovava, la minestra di arzilla con broccoli.
L’arzilla simile ad una razza, ha il corpo attraversato da lische e cartilagini che la rendono poco appetibile ma, dopo essere stata usata per il brodo, spellata e fredda, condita con salsa verde cruda oppure con olio, limone, sale e pepe, può essere un saporito piatto di complemento, come si fa con il lesso di carne, eventualmente accompagnandola in stagione, con un contorno forte, tipo le puntarelle con le alici.
Sperando di non avervi guastato l’appetito, termino questa “ passeggiata “ in allegria, con l’ultima strofa de “Lo Guarracino“, tarantella napoletana del 1700, di autore ignoto, dedicata, più di ogni altra canzone, al mare ed alle specie ittiche, raccontando la passione amorosa che colpisce due pesci, il guarracino e la sardella.
La storia si complica per le chiacchiere pettegole di una bavosa che inducono l’alletterato, antico innamorato della sardella, ad intervenire sdegnato e geloso, scatenando un putiferio che coinvolge quasi tutte le creature marine, parenti o amiche dei due pretendenti, le quali vengono minuziosamente elencate nelle molte strofe della tarantella, che così si conclude, come concludo io:
… ma de cantà sò già stracquato … ma di cantare sono già stanco
che me manca mò lo sciato; e mi manca il fiato;
sicché dateme licenzia, quindi consentimi di smettere,
grazziosa e bella audienza, invitandomi, gentilmente,
nfì che sorchio una meza de seje, a togliermi la sete
cò salute de luje e de leje, alla salute di lui e di lei,
ca se secca lo cannarone perché mi si è seccata la gola
sbacantannose lo premmone. ed affaticati i polmoni.
Intervento preparato il 17 aprile 1998 per il carissimo amico Claudio Solustri in occasione della cena inaugurale dell’Accademia Gastronomica Romana e successivamente aggiornato.