Le opere di Giuseppe Diotti in mostra. Articolo di Davide Landoni tratto da ArtsLife. Dal 28 ottobre 2017 al 28 gennaio 2018 Casalmaggiore (Cremona) rende nuovamente onore, a dieci anni esatti dall’apertura della casa-museo a lui dedicata, al suo più importante pittore concittadino: Giuseppe Diotti (1779-1846). Lo fa probabilmente come mai è stato fatto, celebrando in modo completo un artista che ha fatto scuola, ma che da questa è stato forse prematuramente dimenticato.
Giuseppe Diotti emerge definitivamente dall’ombra in cui la storiografia artistica l’ha accantonato, almeno fino alla mostra a lui dedicata nel 1991, riprendendo idealmente possesso di quell’edificio che fu sua casa, oltre che proprio studio professionale.
Con lui ritornano opere disseminate lungo tutta la regione, raccolte da grandi istituzioni del territorio, per accompagnare il visitatore all’interno delle stanze in cui esse sono state concepite e talvolta realizzate. La mostra vanta infatti opere inedite ed altre mai esposte nonostante l’indiscutibile fama, disegni preparatori e pitture di contemporanei illustri utili ad un confronto dialettico.
Fra le righe dell’esposizione emerge dunque anche la metodologia di lavoro dell’artista, oltre al contesto storico e culturale in cui prima ha studiato e successivamente lavorato.
Ma la portata di questa mostra, fortemente voluta dall’amministrazione comunale e realizzata grazie al fondamentale supporto di molte realtà locali, non si limita alle mura della casa-museo. Il percorso nella pittura diottesca prosegue solcando le strade della città, delineando un vero e proprio itinerario alla scoperta delle opere del Diotti celate all’interno di contesti particolari come la chiesa, il palazzo pubblico e la dimora nobiliare; contestualmente vengono anche valorizzati alcuni esempi di architettura neoclassica.
L’esposizione si dispiega seguendo cronologicamente la vita del pittore e sottolineando le tappe principali, i punti di svolta, gli elementi chiave della sua vicenda artistica.
Abbiamo dunque una prima area tematica, quella dedicata al periodo della formazione a Casalmaggiore in cui, attraverso lo studio e la copia dei maestri, si avvicinò al luminismo cinque-seicentesco nel tentativo di perfezionarlo. Rilevante rimane la sua versione del dipinto cinquecentesco del Malosso San Pietro in carcere liberato dall’angelo.
Successivamente vengono presentate le opere appartenenti al fondamentale periodo di apprendistato romano, iniziato nel 1804 e fra le quali spicca certamente l’Adorazione dei pastori, tela che gli valse importanti riconoscimenti e premi in denaro. Da ammirare anche le stampe e gessi di grandi suoi contemporanei, su tutti Raffaello, rappresentanti di quelle vette stilistiche a cui sempre Diotti farà riferimento.
Da qui al periodo della maturità, quello dei cicli decorativi e degli anni di insegnamento presso l’Accademia Carrara di Bergamo, iniziato nel 1810, dove formò alcuni straordinari talenti come Coghetti e Carnevali.
Il percorso continua immergendosi nei capolavori della produzione ultima, con la grande opera incompiuta Giuramento di Pontida, risalente al 1843, di cui è in mostra il cartone preparatorio (la tela è conservata nella sala consiliare del Municipio cittadino) e la meravigliosa Pala Petrobelli, esposta per la prima volta in questa occasione.
La mostra offre ulteriori spunti di riflessione ponendo un interessante confronto fra Diotti e alcuni suoi contemporanei, a cui dedica una specifica sezione legata al tema di Ugolino nella torre, personaggio reso celebre da Dante nella Divina Commedia, declinato in varie versioni.
Infine la sala più ampia del Palazzo Diotti è destinata ad occupare la collezione di stampe raccolte dallo stesso pittore casalese.
Ciò che emerge dall’esposizione è un personaggio ben distante da quello che l’impostazione classica delle sue opere lascia intendere a prima vista. Lungi da rassegnarsi all’etichetta di attardato pittore neo-classico, di irriducibile reazionario, di epigono di una tradizione sulla via del tramonto, Diotti si libera dalla polvere della scuola accademica e si rivela nella sua poliedricità. Oggi scopriamo un uomo che è stato in grado di vivere la sua epoca, di comprenderne le origini e soprattutto di intravedere le sue sfumature moderne. All’antica tradizione classica deve in particolar modo il tratto liscio e preciso, elemento imprescindibile di quel disegno che non può non rappresentare il fondamento di qualsiasi realizzazione pittorica. Come del resto la grande importanza dedicata alla scelta della tela, dal punto di vista della qualità del materiale e della maestria dell’intreccio; senza tralasciare la selezione mirata dei pigmenti del colore, dalla cui natura deriva lo splendore e la resistenza dell’opera.
La qualità degli strumenti dunque, lascito di una tradizione che dell’arte conserva ancora l’etimologia originaria di “saper fare” e saper fare bene. Aspetto forse tralasciato dai grandi romantici francesi, al tempo gli artisti che raccoglievano più successo, che all’indiscutibile impatto emotivo non hanno saputo affiancare tecniche che prevenissero l’incessante scorrere del tempo, lasciando le proprie opere sensibili ad un già visibile decadimento (vedi La zattera della medusa). Dal Romanticismo Diotti non rinuncia però a far suo l’approccio storico, a cui farà spesso ricorso durante l’età matura e che culmina nella realizzazione del Conte Ugolino nella torree La corte di Ludovico il Moro, dove riunì sulla tela le più illustri menti del tempo.
Le fonti che partecipano al suo universo creativo non si esauriscono nel campo figurativo, ma invadono dimensioni trasversali come la letteratura ed il teatro. Infatti, oltre ad un lampante tributo al soggetto sacro e ai suoi celebri maestri, l’artista di Casalmaggiore attinse ispirazione per i suoi lavori da celebri poeti e letterati, come Dante e Alfieri.
Si racconta che Diotti fosse solito ritrovarsi con un gruppo di amici e con questi leggere alcuni passi di un testo; a questo punto, senza troppi indugi, erano chiamati a riportare su tela la narrazione figurativa di ciò che era stato letto, così da tradurre in immagini le parole filtrate dalla sensibilità di ognuno di loro.
Al teatro deve invece sicuramente l’impostazione scenografica delle sue opere, soprattutto quelle di grandi dimensioni. La gestione dello spazio e della luce è studiata così da dare respiro ad ogni elemento della composizione, in modo da non alterare l’armonia senza rinunciare però alla carica emotiva.
Particolare fu anche l’approccio con cui Diotti gestì l’insegnamento presso l’Accademia Carrara, che lui stesso definì somigliante ad una “Repubblica”. Se infatti in tutte le altre accademie, comprese quelle più rinomate come quella di Brera, agli alunni erano impartite lezioni totalmente incentrate sul disegno, l’artista di Casalmaggiore era solito lasciare concludere ai suoi studenti le sue stesse opere per quanto concerne l’aspetto pittorico, affidandogli responsabilità e dotandoli di capacità che i loro colleghi avrebbe acquisito solo successivamente.
Romantico, Purista, Luminista, Neoclassico, insegnante, direttore d’accademia, collezionista. Giuseppe Diotti fu questo e molto altro. Fu uomo capace di tracciare la parabola del suo lampo artistico senza dimenticare la prima luce che l’ispirava: quella divina.
L’ultima sua grande opera, la Pala Petrobelli, può essere considerato a ragione il suo testamento artistico ed esistenziale. La Pala riprende il tema degli esordi, ovvero quell’Adorazione dei pastori che lo consacrò a Roma come una realtà di rilievo nel contesto culturale del tempo. Lo fa dedicando un tributo a Gherardo delle Notti nell’impostazione formale della scena e popolando il palco di una precisa varietà di personaggi, ciascuno diverso ma tutti legati da quel sentimento di umanità e verità che Diotti cercò di imprimere nella sua produzione. Abbiamo per esempio il cieco, a rappresentanza della condizione umana prima della rivelazione. L’uomo timorato che si copre il viso a cospetto dell’incomprensibile e quello che in disparte cerca perplesso di capire ciò che sta avvenendo. E al centro, naturalmente, quel Cristo bambino che irradia come un focolare la buia e familiare scena della sua nascita. La sua luce si diffonde lungo lo spazio intima e spirituale. Proprio come Diotti viveva la fede, proprio come Diotti vedeva la pittura.