Mariangela Imprenda in Se questa è una donna, lo spettacolo teatrale in scena al Teatro Studio Keiros di Roma – Dopo il debutto al Teatro J.P. Velly di Formello (15 e 16 marzo), la prima romana al Teatro Antigone ( 5 aprile- doppio spettacolo), sarà nuovamente in scena, dopo la replica di domenica 11 maggio, presso il Teatro Studio Keiros (Via Padova, 38/a Roma Metro B- Fermata Piazza Bologna) il giorno 18 maggio, alle ore 18:00, lo spettacolo teatrale Se questa è una donna di Mariangela Imbrenda, tratto dall’omonimo libro di Luca Attanasio, con Mariangela Imbrenda.
Regia di Mariangela Imbrenda e Gabriele Sisci.
Musiche originali ed appositamente composte da Gabriele Sisci.
Una donna è la storia delle sue azioni e dei suoi pensieri, di cellule e neuroni, di ferite e di
entusiasmi, di amori e disamori. Una donna è inevitabilmente la storia del suo ventre, dei semi che vi si fecondarono, o che non furono fecondati, o che smisero di esserlo, e del momento, irripetibile, in cui si trasforma in una dea. Una donna è la storia di piccolezze, banalità, incombenze quotidiane, è la somma del non detto. Una donna è sempre la storia di molti uomini. Una donna è la storia del suo paese, della sua gente. Ed è la storia delle sue radici e della sua origine, di tutte le donne che furono nutrite da altre che le precedettero affinché lei potesse nascere: una donna è la storia del suo sangue. Marcela Serrano Thérèse si batté con una energia superiore alla sua età. Non voglio dire al suo sesso: una donna, quando è eroica, non è mai eroica a metà.
George Sand, “Lei e Lui”.
Quando per la prima volta ho incontrato Luca Attanasio, avevo letto con attenzione soltanto il romanzo “ Se questa è una donna”. In pochi minuti, durante la nostra conversazione per scegliere i passi da render noti in vista di un’imminente presentazione del libro, la realtà narrata in quelle pagine dotate di cruda quanto amorevole pregnanza è riapparsa dentro di me con le tipiche fattezze non rinviabili di un’opera teatrale.
Mi sono accorta allora che “Se questa è una donna” era ed è sì un romanzo, ma anche un
vivissimo caleidoscopio drammaturgico con i suoi tre personaggi di ferro- le donne protagoniste – e le storie da loro vissute traducibili in un diverso linguaggio parallelo alla parola nata sulla carta ovvero quello espresso da un corpo e dalla propria voce immersi in uno spazio naturalmente scenico.
Ho immediatamente proposto all’autore di lavorare ad una veste teatrale evitando a priori l’ipotesi di uno spettacolo di ricostruzione cronachistica degli eventi che hanno condotto in Italia le donne da lui intervistate, completo di scenografia, personaggi “buoni” e “cattivi” alla maniera della morfologia della fiaba: l’obiettivo iniziale ed ineludibile è coinciso con l’urgenza soprattutto intesa dal punto di vista spettatoriale di ascoltarle, vedendo ri-vivere in prima persona le loro vicende di sconfinato amore per la vita e fuga quasi invasata perché disperata, verso un’intima idea di libertà.
In teatro, la mia richiesta verrebbe contemplata e soddisfatta dalla forma monologo e così è accaduto: la creatura venuta per prima al mondo e che ora si colloca per ultima nello spettacolo si intitola “Angela dei mari” come la colonna sonora che l’accompagna o meglio le dà vita da un altro fronte ed ha per protagonista Aminata, la “donna ancora da tagliare”.
In seguito è nato il secondo monologo incentrato sul personaggio Shirin con cui oggi si apre il mio lavoro ed infine al centro ho posto la vicenda umana di Yergalum che è stata per mia volontà epistolarizzata onde rispettare sul piano narrativo la presenza di un altro importante personaggio, maschile, Dawitt che sostiene, sebbene da lontano, economicamente e sentimentalmente il lunghissimo calvario della sua amata.
Delle tre donne, ho avuto modo, durante un reading, di incontrare quella che prende il nome di fantasia di Yergalum. Non avendo osato nemmeno avvicinarmi a lei, per godere rispettosamente dell’aura ieratica che l’ostentazione involontaria della dignità intatta di donna ed essere umano le consentiva di diffondere, affermo con sicurezza di non poter minimamente “conoscere” Aminata, Shirin e appunto Yergalum.
Sono consapevole, ribadisco della trasposizione in romanzo, pertanto su alcuni elementi quali il linguaggio, la gestualità, l’espressività ho lavorato evitando la vana pretesa di restituire su un palcoscenico l’imitazione di tre eroine contemporanee. Non nascondo (chi è del mestiere lo sa) che sarebbe stata la strada più semplice ed immediata… Tuttavia a me e a Gabriele Sisci che, oltre a comporre le musiche, mi ha diretta realizzando un’opera a quattro mani, la seducente ipotesi si è squadernata subito come un vuoto esercizio accademico da cassare.
Io non parlo le loro lingue, non conosco le loro musicalità, le loro ninne nanne, i loro paesaggi, i profumi e gli odori delle loro terre: ignoro i loro animi ed i veri pensieri infatti mi sono concessa di intuirli in punta di piedi con timore reverenziale.
Mi sono detta che non dovevo raccontare nuovamente la loro via crucis, ma percorrerla io stessa in tre modi diversi secondo il mio linguaggio, il mio corpo, la mia modalità di muovermi in scena, la mia voce essendo d’altronde me stessa l’unico “personaggio” teatrale che conosco meglio di qualsiasi altro.
Desidero presentare i tre lavori umilmente come proposte drammaturgiche secondo la mia resa del sinistro ed enigmatico rapporto che intercorre tra langue e parole: demolito il primo filtro costituito dal romanzo indagabile anche secondo uno sguardo di genere, ho recuperato l’universalità delle storie concordando con l’autore sull’eroismo moderno di cui si ammantano Aminata, Shirin e Yergalum non lontano da altre parenti teatrali più classiche soprattutto della tragedia greca e figure spesso maledette, autoritarie, forti, ribelli e vincenti del secolo breve.
Essenza e non perfetta somiglianza, una sorta di motto-guida nella riscrittura drammaturgica e nell’interpretazione, questo il mio vero interesse: non una copia delle tre donne protagoniste, semmai una copia “originale”, come originali sono e saranno sempre i riassunti pluriprospettici della scena di strada di brechtiana memoria.
Un tempo aspiravo, con scarsa indulgenza nei miei confronti, a restituire con piglio ossessivo la giusta distanza, questa volta mi sono regalata l’opportunità di trovare una terza via, una sfumatura tra il noto, proprio soltanto di chi ha vissuto in prima linea, ed il suo contrario ovvero di chi apprende tramite un atto di informazione tout court, tra una versione dei fatti impenetrabile ed inviolabile e la mia lettura soggettiva.
Mi sono detta che per essere Aminata, Shirin e Yergalum dovevo essere ancor di più me stessa ossia una donna diversa dalle sue omologhe che hanno vissuto però una storia uguale, universale giacché innanzitutto umana, uno spettacolo di dolore, da pochi soldi dove le gesta sono davvero eroiche.
Le mie Aminata, Shirin, Yergalum sono dotate di straordinaria fantasia, camminano
instancabilmente e coraggiosamente lungo un sentiero di amore, rivoluzione e politica nel senso pasoliniano del termine e, forti del loro sapersi personaggi inusuali, non vivono alla luce degli uomini, ma nella modestia, ostentano indistruttibile talento e come ogni grande donna sono piene di grazia.