Michela Zanarella: il movimento della luce creante
La poesia italiana, secondo la stretta dualità del Novecento, si divide nel Grande Stile e nell’Ermetismo da un lato, e nell’avanguardia e nelle neo-avanguardie dall’altro. Oggi è fin troppo evidente che questa severa distinzione non regga il passo dei tempi, specie guardando alle nuove e ultime generazioni esordienti nel terzo millennio. Ma sarebbe sufficiente nominare, stando alla seconda metà del secolo scorso, gli “eversivi” Gatto, Penna, Sereni, Caproni, lo stesso Pasolini, per intuire che c’è stato molto di più nel vasto, infinito spazio editoriale: un’esigenza ferrea che appartiene a quella tradizione probabilmente iniziata con Umberto Saba. Sabiana è la poesia di Michela Zanarella (di Cittadella, nata nel 1980 e tradotta in più lingue), autrice prolifica, dotata di una semplicità rigorosa, antiretorica, che dà vigore agli stati d’animo, colore agli oggetti, trasparenza al suo irrinunciabile andamento lirico dove la “coscienza del fuoco” è nient’altro che la luce del giorno, la radice dell’alba, l’oscillazione di bagliori, luminescenze, luccichii impugnati come fossero oggetti di difesa personale. Il suo ultimo lavoro si intitola La filosofia del sole (Ensemble 2020) e agglomera l’impaziente e sorgiva stella madre intorno alla quale gira la terra baciata dalle radiazioni del pianeta rigurgitante di luce: il sole. Dice bene Dante Maffia, nella prefazione, che questa luce è di derivazione, luziana, come “l’eco delle carezze” e “l’idea di un bacio che non muore”. Il sole e la luce, dunque, metafore dell’amore infinito, rappresentano regole di sopravvivenza, il nettare e il respiro del mondo, il nutrimento e la funzione energetica di qualunque corpo. Scrive in proposito Michela Zanarella: “Chiedersi cosa contiene la luce / e se è sufficiente vederla con gli occhi / o è necessario conoscerla con tutto il corpo / fino a diventarne il guscio o respiro …”. Anche l’aldilà, solo in parte accennato, si attraversa con un’onda di luce e il tempo viene superato nel varco dell’esistenza terrena, nel silenzio di voci umane, nel segno del destino che si compie nel dopo morte. Il cielo e l’orizzonte lontano sono pretesti per ascoltare il movimento della luce, che è pura verità. La poesia di Michela Zanarella sembra persuasa da una religione laica che unisce anima e spazi siderali, atmosfere e geografie non specificate, perché infine il cielo e la terra si incontrino “addosso all’invisibile”. La tensione metafisica è dunque uno dei punti di ricerca ideale di questa poesia, per la quale il nostro destino si completa accanto ad un’aurora (ritorna la luce dorata, purpurea). La necessità di una visione ampliata, che superi la ferialità o qualunque sentimento edulcorato, spinge Michela Zanarella a sondare gli spazi del reale, anacronistici, dando rilievo ad eventi esterni, ad un procedimento di metamorfosi continua. La sua sfida, però, rimane sul piano comunicativo, senza alcun azzardo sperimentale. La luce creante, in effetti, altro non è che una direttrice, la felice resurrezione della speranza, la celebrazione dell’atmosfera che riveste la terra e ciò che vive altrove, nella stratosfera, secondo le leggi della fisica. La poesia, sappiamo, si fa con l’introflessione, con il sogno, con un input trascendente, con un’epica intima. Eccone un esempio perfetto. “E’ ancora tiepida dei vostri passi la terra / e infatti camminate tra i vivi / in una luce di novembre / liberi dal corpo ora avete il fiato che si muove / tra i cortili e un azzurro mite / che ha la presunzione di chiamarsi eterno”.
Alessandro Moscè