Sulle rotte del mondo: culture indigene e teologie – Il tema dell’ultimo degli incontri pubblici organizzati nella sala Depero del palazzo della Provincia nell’ambito della terza edizione delle “Rotte del mondo” era dedicato al tema: culture indigene e teologie. A confrontarsi Edinho Batisa, coordinatore del centro di formazione e cultura indigena Raposa Serra do Sol, Stato di Roraima, Brasile, Alfredo Souza Dorea, impegnato nei quartieri “difficili” di Salvador, Brasile, dove la comunità afro-brasiliana l’ha insignito del titolo di “macro-ecumenico prete di strada”, padre Gianfranco Graziola, nato a Rovereto, missionario della Consolata, coordinatore della pastorale sociale di Roraima, Brasile, Calixto Quispe, diacono della diocesi di El Alto , Bolivia, Maria Luisa Pizzi, ingegnere agronomo e ricercatrice, lavora nel Chaco argentino e padre Claudio Zendron, nato a Trento, missionario, attualmente provinciale dei comboniani in Ecuador. comboniano
“L’America Latina si dovrebbe chiamare Amerindia” ha detto la moderatrice, la giornalista Antonella Carlin, in apertura dell’incontro, ricordando che nel continente vivono più di 50 milioni di indigeni.Padre Gianfranco Graziolaha ripreso lo spunto per affermare che “oggi in America latina esistono una pluralità di teologie, bisognerebbe tenere conto di tutte loro, in particolare delle teologie indigene, che sono vive, vitali, pur concependo la vita in maniera diversa dalla nostra, in maniera olistica. I popoli indigeni concepiscono la terra come madre, la Pacha Mama, quindi non afferrano la nostra visione che è spesso quella di una terra corrotta”.
Edinho Batista ha parlato di un sogno che unisce, quello di costruire un mondo unito e solidale, “nonostante noi popoli indigeni abbiamo conosciuto 500 anni di massacri. Io sono qui oggi a nome di 700.000 indios per dire al mondo che lo sviluppo di qualsiasi continente non si fa massacrando gli altri esseri umani né distruggendo l’ambiente, così come oggi stanno facendo i governi di molti paesi e le grandi imprese. La cultura indigena prevede la divisione, fra tutti, delle ricchezze e il rispetto della natura. La teologia indigena lotta per la pace e la giustizia, costruendo un modello di vita dove tutti abbiamo la libertà di crescere e di vivere umanamente”.
Callixto Quispe che ha iniziato l’incontro con un piccolo rito, gettando attorno dei petali, ha illustrato il suo cammino materiale e spirituale. “La mia famiglia è come quella di Abramo, errante e senza terra. Mio nonno a 15 anni mi consacrò come sacerdote Aymara, successivamente i miei genitori si convertirono alla Chiesa metodista, dove sono stato educato. Dopo essere rimasto orfano, sono entrato in seminario, pur non conoscendo la dottrina cattolica. A quel tempo ci dicevano che per abbracciare la parola di Dio dovevamo abbandonare la cultura aymara. Sono stato in seminario 7 anni e ho portato avanti due parrocchie, ma non mi sono ordinato sacerdote. E’ stata un’esperienza importante, a contatto con i poveri. Successivamente ho riscoperto la mia cultura tradizionale, nell’ambito di un percorso ecumenico. Mi sono ordinato diacono solo nel 2002, e lì davvero ho vissuto un conflitto personale, fra le mie diverse appartenenze culturali. Ma alla fine ho deciso di essere sia aymara che cristiano, e di vivere pienamente queste due realtà”.
In Brasile sono 110 milioni gli afroamericani, molti dei quali nello stato di Bahia. Alfredo Souza Dorea ha spiegato ragioni e modalità del suo lavoro con Casavida, ma prima ha intonato un paio di canti, ripresi subito in coro dai tanti missionari presenti che vivono e operano in Brasile. “Casavida ha iniziato lavorando con i bambini sieropositivi; abbiamo creato un centro diurno per accoglierli, lavorando al tempo stesso con i genitori. Io mi rapporto anche con la religiosità del Candomblè, venuta dall’Africa, scaturita dall’incontro fra le culture degli schiavi portati in America latina e il cristianesimo, che all’epoca veniva imposto con il battesimo. Si basa sul culto degli antenati, che si manifestano attraverso il corpo di un vivente. Oggi la Chiesa cattolica guarda con rispetto al Candomblè. Io ho sentito parlare tanto di Chiesa, in questi giorni, ma tutti noi siamo Chiesa, in Brasile la pensiamo così, lo Spirito soffia ovunque. Un grande vescovo afrobrasiliano ricordava che un tempo la Chiesa non stava con i neri, non ha condannato la schiavitù, non ha benedetto i quilombos (comunità create dagli africani fuggiti alla schiavitù). Solo oggi comincia a volerci bene. Diceva che non possiamo rinnegare i nostri antenati, la nostra storia, solo perché siamo cristiani. Noi oggi sappiamo che il nostro percorso verso Dio è un percorso verso la liberazione. Ed è un percorso che facciamo con tutte le minoranze, tutti gli emarginati.”
Padre Claudio Zendron ha ripreso il filo del ragionamento: “Questo è l’anno internazionale degli afrodiscendenti, proclamato dall’Onu, ma per noi un anno non basta, ce ne vorranno 10. Oggi la grande comunità degli afrodiscendenti, 130 milioni in America latina, sta crescendo ulteriormente. E’ un segno di vitalità culturale. Oggi gli afrodiscendenti sono fieri di essere Negri. A Quito il centro che abbiamo creato serve a fortificare questa scelta. Il vero dramma in realtà è che non abbiamo una chiesa negra. Ma ci sono forme devozionali legate alla tradizione negra, come quella del Cristo nero di Daule. Per evangelizzare bisogna partire da lì.”
Infine Maria Luisa Pizzi, che ha spostato il “fuoco” dell’attenzione nel Chaco argentino, dove vivono, oltre che molti discendenti di emigrati trentini, anche comunità indie. “Nella nostra regione gli indigeni sono stati spesso oppressi. Negli ultimi anni però i missionari hanno fatto un lavoro straordinario per salvare la cultura indigena e la sua lingua. Molti oggi pensano che gli indigeni in Argentina non esistono: in effetti la loro presenza è inferiore all’1%. E’ una popolazione molto vulnerabile, indifesa. Vedere l’impunità dei potenti mi ha portato a prendere la loro parte, non solo come ricercatrice ma anche come cristiana.”
Sul web: www.missionetrentino.it