The Malpighian Layer, la mostra alla CAR DRDE di Bologna dal 12 maggio al 28 luglio 2018 – Lo strato malpighiano è la parte più profonda dell’epidermide. Trae il nome dallo scienziato italiano Marcello Malpighi (nato nel 1628 a Crevalcore, vicino Bologna). In questo livello interno, le cellule sono continuamente rigenerate tramite mitosi, migrando poi verso l’esterno per sostituire quelle perse in superficie. Malpighi poté descrivere questo fenomeno grazie all’innovativo uso del microscopio negli studi sugli organi. In senso metaforico, le immagini generate dai lavori in mostra possono essere considerate come il livello più esterno di una pelle estesa e immateriale, verso cui risale lo spettro di un substratum strutturale o culturale spinto in superficie dallo strato interno. Questo movimento provoca un cambiamento nella percezione; l’abituale oscurità del “negativo” che solitamente accompagna il “positivo” in un’immagine, è qui richiamata nei processi che permettono all’immagine stessa di apparire. Avvalendosi di diverse strategie, le opere esposte denotano aspetti ingannevoli e fallaci della visione: categorie spaziali e temporali come il qui e l’altrove, il prima e il dopo, diventano di più difficile determinazione e appaiono come fuse le une con le altre in un legame mutevole. Il mappare questa “pelle” immateriale in quanto spazio ripiegato in una forma compressa e codificata sembra essere l’azione principale compiuta dalle opere in mostra, al fine di rivelare nell’immagine la presenza di qualcosa di autentico e generativo che potrebbe facilmente andare perduto nel canone e nella codifica. Nei disegni della serie “Small Accidents”, AMèLIE BOUVIER prende spunto da immagini prodotte da strumenti tecnologici solitamente impiegati per visualizzare elementi e fenomeni non visibili a occhio nudo. Nonostante la loro “corretta” leggibilità sia limitata a un ristretto gruppo di specialisti, tali immagini hanno ripercussioni molto più ampie sulla struttura della società. L’artista realizza i disegni a mano, seguendo un processo meccanico che prevede l’utilizzo di oggetti che ostacolano la regolarità delle tracce, generando errori e sbavature. Ciò che il nostro occhio legge e classifica come una tela è in realtà un calco realizzato in resina e pigmenti da THEIS WENDT. L’oggetto è la fedele riproduzione di un dipinto, la cui struttura è come continuamente scansionata dalla luce. “Permanent Shadow” innesca un meccanismo di auto-referenzialità che rivela una profondità di superficie, in un collasso dell’altrove verso l’interno. In “Sottrazioni”, GIULIO SAVERIO ROSSI compie un’operazione quasi chirurgica su un supporto cartaceo precedentemente lavorato, portando al vivo lo strato successivo tramite l’utilizzo di un bisturi. In “Fluidi #1” coesistono invece gli estremi dello spettro visivo percepibile dall’occhio umano, restituiti su tela attraverso pigmenti naturali. Nel quadro, l’ampiezza originale dello spettro tende ad assottigliarsi a causa dei processi chimici ancora agenti nell’opera. La reazione tra tecniche e frammenti visivi di origine diversa è alla base della pratica pittorica di INGA MELDERE. “Vertex” e “Damask” fanno parte della serie “Coloring Books for Adults” in cui l’artista opera per stratificazione, alternando stampa fotografica e pittura in sequenze multiple e complesse, il cui risultato mette in crisi – a partire dalla tecnica e non dal linguaggio – l’integrità delle immagini. Gli interventi scultorei di JONATHAN VAN DOORNUM concorrono alla costruzione di una spazialità deviata. Progettando pseudo-arredi – come “Kitchen cabinet 03” e “Nails” – l’artista opera un sabotaggio della neutralità e della familiarità del design di massa, lasciando affiorare attraverso l’ornamento e la deformazione tensioni irrisolte nell’inconscio collettivo.
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